lunedì 30 giugno 2008

La profezia del Duka

Sul numero 23 di Carta c'è questa bellissima recensione di "Roma K.O." firmata da Giuliano Santoro:

"La profezia del Duka"


Nell’arco di cinque giorni la città-vetrina del «sindaco V.» viene travolta dagli eventi.
Lo stesso accade alla vita di uno dei protagonisti della controcultura romana


Il chilometro di cemento armato di Corviale, a Roma, simbolo della metropoli costruita come un falansterio in cui migliaia di persone potessero vivere in armonia, è diventato un ghetto che marca il confine tra la città e la campagna. Uno dei luoghi che in un altro recente romanzo, «Il contagio», il postpasoliniano Walter Siti ha descritto con scientifica e sconvolgente crudezza. È da queste parti che prende le mosse la storia di «Roma K.o.», il romanzo del Duka e Marco Philopat. Un gruppo di giovani torna da un rave e cerca di smaltire le droghe in uno scantinato del palazzone. Ma, metonimia
divampante, le fiamme danneggiano le fondamenta del simbolo della metropoli del sindaco V.: il casermone deve essere sgomberato, e gli abitanti vengono sfollati in un accampamento all’interno degli studios di Cinecittà, altro posto-chiave della città-spettacolo. Da qui prende le mosse una storia che tira in ballo le tante storie dell’arcipelago
del movimento romano. Il cantastorie della controcultura romana e l’agitatore culturale milanese hanno cucito realtà e fiction. Così, la vita del «bardo del movimento romano» entra a pieno titolo in un’avventura di movimento. Le scuole medie superiori del ‘77 al Plinio, un liceo in cui se eri di Dp eri considerato troppo «di destra». La classe esultò quando arrivò il trafelato
annuncio del rapimento di Moro, solo il Duka e un suo compagno capirono che voleva dire la fine di tutto. Poi gli anni ottanta, quando si riempiono i granai e gli arsenali per l’esplosione dei centri sociali degli anni novanta. Leggendo del rodeo dei carrelli della spesa durante l’occupazione della Pantera alla Sapienza [«Siccome con la polizia non succedeva niente era partita questa famosa battaglia tra lettere e scienze politiche »] pare di assistere a un peplum postmoderno.
Sono irresistibili anche le avventure del Duka nel mondo del lavoro: l’assistenza al ragazzo handicappato [«Li chiamo
così perché non sono uno politicamente corretto», dice il Duka] che la mamma vestiva involontariamente come
uno dei Devo e che lui portava a prendere l’aperitivo o al sexy shop. Negli anni novanta, c’è la missione a
Corviale e Scampia, alle dipendenze del sociologo Ugo Bresaola e della sua fidanzata Rita Di Giuseppe: dovevano spiegare
le prodigiose sorti dell’autoimprenditoria in quartieri in cui «l’unico negozio che conservava consistenti nicchie di
mercato è la farmacia, che poteva contare su trionfanti moltitudini di consumatori, eroinomani, anziani e depressi».
Insomma, sorprende la storia della vita vissuta del Duka più delle peripezie verosimili della trama che scorre lungo
le pagine del romanzo. Ma non bisogna pensare che il Duka abbia semplicemente svelato alcune pagine del suo diario o abbia sbobinato alcuni dei suoi monologhi. Siamo di fronte a un’operazione più ambiziosa. L’azione è scandita
dalle droghe consumate per calmare l’ansia e da quelle per stare svegli e continuare a dettare la storia. Fino alla corsa affannata della ultime pagine verso il tramonto oscurato dal palazzone di Corviale, sempre con la paura ipocondriaca
dell’infarto che si è portato via Valerio Marchi e Joe Strummer e quella ossessiva di perdersi un corteo. Un libro spavaldo e mai troppo compiaciuto di se stesso o reducista, che incarna con poesia i pregi e i difetti della vicenda dei centri
sociali romani. Il «surfer di movimento» durante la Pantera lavorava ai fianchi della costruzione di immaginario e poi si faceva le fantomatiche «riunioni notturne» delle avanguardie più politicizzate: segno di un’avventura che turberà sia gli apologeti ideologici della militanza a tutto tondo che i sostenitori spontaneisti della «creatività al potere».

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