mercoledì 18 giugno 2008

manifesto e manifestazione



Sabato 14 giugno c'è stata la manifestazione dell'altra Roma, quella dei centri sociali, per protestare contro le politiche securitarie della nuova giunta e non solo.
Il Manifesto ha dato massimo rilievo all'iniziativa, dedicandole un paginone, che per metà descriveva le diverse situazioni romane e per l'altra parte analizzava Roma K.O., indicandolo come il romanzo capace di tracciare una mappa delle realtà di movimento non solo romane ma di tutta Italia, sia per il suo valore d'archivio storico sia per la lettura critica del presente.
Ecco il pezzo di Benedetto Vecchi:

"Surfando" sull'onda del movimento

“Siamo il sangue nuovo che scorre nelle metropoli”. Il Majakovskij reinterpretato dagli attivisti del Leoncavallo sintetizzava bene la scommessa politica che i centri sociali volevano rappresentare alla fine degli anni Ottanta. Un decennio di controrivoluzione neoliberale aveva cambiato radicalmente il panorama sociale delle metropoli italiane. Le mappe di Milano, Roma, Bologna, Firenze, Napoli, Torino non si erano solo arricchite di nuovi quartieri, ma segnalavano anche la presenza di intere aree dismesse che avevano costituito, solo una manciata di anni prima, luoghi simbolici di quel conflitto operaio e sociale che aveva lanciato l'assalto al cielo. Capannoni industriali, laboratori artigianali, vecchi palazzi, scuole pubbliche fatiscenti e perfino vecchie caserme militari erano stati svuotati degli uomini e delle donne che li avevano fatti diventare punti di riferimento politici, sociali, perfino architettonici. Occuparli sembrava un gioco da ragazzi. E quando il Leoncavallo era riuscito vincente dal conflitto dalla giunta leghista che lo voleva sgomberare, il virus si era diffuso in tutta Italia.
L'essere riusciti a resistere alla marea limacciosa e conformista degli anni Ottanta portava a dire che chi stava in un centro sociale era legittimato a rappresentarsi come il sangue nuovo che scorreva nella metropoli. Perché i centri avevano imparato a memoria le nuove mappe delle città. E dei suoi nuovi centri di potere.
Il legame tra metropoli e centri sociali è d'altronde il filo rosso del godibilissimo libro scritto da Duka e Philopat, due personaggi che hanno attraversato quell'esperienza dal loro esordio alla loro crisi, vivendo il primo a Roma, il secondo a Milano. Ora il Duka alterna il lavoro di giornalista free lance all'attività di editore della Agenzia X. Philopat è uno scrittore e un editore. Questo scritto assieme è un libro di storia orale, che ha al centro il Duka, personaggio noto nel “movimento” romano, definito sarcasticamente un dandy di periferia. Affabulatore come pochi, “schizzato” come tanti frequentatori degli spazi occupati, il Duka ha vissuto il punk, la nascita e la diffusione dei centri sociali in tutta la loro parabola. Sempre con un'attitudine inquieta e refrattaria a qualsiasi deriva identitaria del movimento, anche quella verso la quale ha sentito e sente maggiore “affinità elettiva”.
Viene dalla periferia di Roma, conosce la cultura di strada e con pragmatismo e disincanto ha accompagnato l'esperienza delle Posse, ha spesso perorato la causa dell'“autoreddito”, cioè che i centri sociali dovessero “fare società” e dunque garantire un reddito a chi partecipava alla loro gestione. Ha spesso parlato dei luoghi autogestiti come spazi per organizzare il lavoro precario, nonostante il fatto che il Duka è per il rifiuto del lavoro. Eppure ha lavorato nei progetti di avviamento al lavoro promossi da sociologi fulminati sulla via del “capitalismo molecolare”. Ha vissuto la stagione del movimento no-global. È stato a Genova dove ha capito che la guerra permanente al terrorismo è anche operazione di polizia internazionale contro i movimenti. Ha visto molti attivisti scegliere di entrare in Rifondazione comunista, giudicando con lungimiranza quella scelta un suicidio politico. Ha visto consumarsi l'illusione, coltivata da alcuni centri sociali, di poter condizionare la governance messa in piedi sal sindaco Walter Veltroni. Insomma, il Duka “surfa” sempre sulle onde che il “movimento” produce.
Ma questo libro è un appassionato documento anche sulla crisi dei centri sociali, rappresentata nel libro dal finto sgombero di Corviale. In poco più di venti pagine, il Duka ne racconta le diverse anime. Ci sono i pink, gli amanti di Puffolandia, gli emmelle duri e puri, i deleuziani, i negriani, gli occupanti, i black bloc, i cobassini: tutti affettuosamente stigmatizzati per la loro inadeguatezza per quanto sta accadendo in città.
Il risultato elettorale che ha consegnato il Campidoglio ad Alemanno è stato solo la ratifica della loro crisi. Ma non della loro scomparsa. In queste settimane ci sono stati molti incontri e tutti assieme, cosa inedita vista la loro litigiosità, hanno cominciato tutti quanti assieme a fare i conti con il modello di metropoli che Walter Veltroni ha provato a realizzare. Un modello che aveva come perno una “economia dell'evento” che metteva al lavoro intellettualità di massa e una costellazione di piccole imprese e che aveva come polmone finanziario il “surplus” di profitti e di rendita proveniente da una sorta di “uso capitalistico del territorio” che le giunte di centro sinistra ha cercato di governare, ma non di contrastare. Ma ci sono anche i senza casa, i migranti, i precari sans phrase, tagliati fuori dal “modello romano”. Inoltre, incombe su di loro la minaccia di sgombero. Sanno che dovranno resistere.
Non c'è però nessuna possibilità di ritornare alle origini. Non potranno, credo, i centri sociali essere i fortini assediati da cui organizzare la resistenza. Dovranno semmai imparare a conoscere le nuove mappe della metropoli. Dovranno cioè pensare che ogni singola esperienza vada trasformata in inchiesta sulla metropoli, per parlare tanto alla forza-lavoro occupata nell'“economia dell'evento”, ma anche ai migranti, agli occupanti di casa, ai precari sans phrase. Solo così riusciranno a ritornare ad essere “il sangue nuovo che scorre della metropoli”. E solo così l'onda riprenderà la sua forza. Se così sarà, il Duka sarà lì di nuovo a “surfare”. Senza prendersi sul serio, anche quando racconta storie serie.

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